HOME PAGE

lunedì 16 marzo 2015

L'ARCIPRETE ED IL MARTIRE

IL DESTINO POST-MORTEM DI VINCENZO TEDESCO

Dal mensile IN ASPROMONTE di Marzo 2015


Il 6 agosto 1847 Edward Lear si trovava a Sant’Agata del Bianco, intento a riprodurre nei suoi disegni le valli dove franiamo e gli scenari chiaroscuri che incorporano muti millenni.

S.Agata del Bianco nel 1847 in un disegno di E. Lear

Grazie ad un suo schizzo sappiamo che, forse, la chiesa di S. Nicola, oggi di S.Agata, sita in Piazza del Popolo, aveva due campanili posti ai lati della facciata (mentre oggi esiste un solo campanile costruito nella parte retrostante di essa) oppure, quello che si intravede nel disegno, è un pezzo della chiesa di S.Rocco (che si erigeva di fronte al palazzo baronale). Probabilmente il viaggiatore inglese incontrò il sacerdote di quel piccolo borgo che, dal 1831, era Vincenzo Tedesco. Lo si deduce dalla descrizione del palazzo “poussinesco” del barone Franco: “Il soggiorno era molto disordinato e c’erano quattro teste di poeti impolverate agli angoli. I fratelli del barone e i figli erano tristi, come pure il prete”. Il barone era assente e, il giorno dopo, Lear annoterà che “l’aggravata malattia della padrona di casa spiegava la tristezza della scorsa notte”. La baronessa, difatti, morirà la mattina del 7 agosto.

Ed è proprio la morte, o meglio, lo stesso destino post-mortem, ad accomunare due personaggi di quel periodo: Rocco Verduci e, appunto, Don Vincenzo Tedesco. Entrambi di Caraffa del Bianco (il primo repubblicano e il secondo filo borbonico), erano uomini molto diversi. Tedesco, ad esempio, frequentava la residenza signorile dei Franco ed era fedele all’ordine costituito, Verduci, invece, si riuniva in segreto con i suoi compagni nel palazzo Borgia di Sant’Agata, nella “ruga randi”, e sognava più diritti per il popolo, pensando, così, di interpretare il sentire del mondo. Insomma, uno voleva fare la storia ed uno si impegnava a scriverla (omettendo le vicende dell’altro).


Sant'Agata, Vie delle Porte Pinte. Nella casa con il volto di
donna dimorò per 46 anni Vincenzo Tedesco

Vincenzo Tedesco, difatti, nel 1856 pubblicherà la sua opera più nota (Memoria dei luoghi antichi e moderni del Circondario, Tipografia Agrelli di Napoli) “fidando nella munificenza del re Borbone” ma non citando mai la sommossa del Distretto di Gerace (settembre 1847) capeggiata da Verduci, Bello, Mazzoni, Ruffo e Salvadori (i cosiddetti “Cinque Martiri di Gerace”).
Tuttavia, dal testo emerge ugualmente il notevole intuito storico del religioso che, nel suo incipit, sottolinea come: “Il passato tace per noi, essendoché i  nostri maggiori (non parlando degli avvenimenti più antichi che andarono forse perduti) furono troppo avari a scrivere, e testimoniarci i fatti loro.” Ha un grande merito, in tal senso, Vincenzo Tedesco.

Nato il 6 febbraio 1796, divenne sacerdote nel 1819. Dopo essere stato parroco di Condoianni e Bovalino si stabilizza, per 46 anni, a Sant’Agata del Bianco. In questo paese l’arciprete diverrà una figura molto apprezzata, uno studioso stimato anche fuori dal territorio reggino. A lui si devono importanti opere retoriche e didattiche. E non solo. Il canonico Antonio Oppedisano nella sua “Cronistoria della Diocesi di Gerace” (1932) lo elogia poiché, dopo il terremoto del 1783, la chiesa di S.Nicola fu riedificata dalla pietà del dotto e zelante parroco Tedesco, che fu uno dei più benemeriti curati”.

Vincenzo Tedesco in un disegno di Gaudio Incorpora

Anche il prof. Gaudio Incorpora inizia il suo libro “La Luna è nera, storia romanzata dei cinque martiri” (Age, 1992) con la figura di Vincenzo Tedesco. Il suo bel racconto  include, tra l’altro, una lettera del 22 luglio 1833 laddove l’arciprete scrive al Sottintendente di Gerace di avere “appreso in una confessione che in questi luoghi serpeggia una Setta sotto la denominazione di Nuovi Europei Riformati” a cui apparterrebbero pure “soggetti sospetti dei Comuni vicini (Bianco e Caraffa) come Antonio Verduci, notoriamente facinoroso”. Di certo, nel 1833 il Tedesco non poteva immaginare che, quattordici anni dopo, il figlio di Antonio Verduci (Rocco) lo avrebbe costretto a nascondersi presso il Convento dei Riformati, in C.da Crocefisso di Bianco, come uno spettatore casuale del moto insurrezionale. 

Sostenitore del Verduci nell’avventura rivoluzionaria era anche il conte Domenico Antonio Grillo (nato a Sant’Agata nel 1801) che seguì con passione gli insorti e, da quell’esperienza, nel 1848, trarrà le sue Memorie storiche (fonte di notizie preziose anche per Vittorio Visalli, l’autore di “Lotta e Martirio del Popolo Calabrese 1847-1848”). Sarà proprio Grillo a narrarci come “Verduci voleva inalberare il vessillo tricolore in Caraffa sua patria…ma l’arrivo del signor Bello, reduce da Reggio, …gli fece cambiar progetto, e punto di riunione fu stabilito il Bianco”, oppure che “la bandiera tricolore era portata da un Giuseppe Politanò di Santagata, di appresso il sacerdote D. Francesco Ielasi del rione Pardesca di Bianco, il quale a cavallo tenea colla sua destra un crocefisso”. Non si era mai vista un’insurrezione così priva di violenza! Interessante, sempre nelle memorie del Grillo, anche la descrizione del paesaggio, dove si evince, ad esempio, come già nella metà dell’Ottocento si aveva consapevolezza dell’area archeologica dell’attuale Villa Romana di Casignana (“Percorsa oramai la metà della via, arrivati agli antichi ruderi di una città, forse Butroto, luogo or detto Palazzi..”).

Alla fine, Grillo sarà arrestato insieme ai capi rivoluzionari e racconterà le ultime ore dei cinque giovani che, il 2 ottobre del 1847, “andarono alla morte con calma”. Del ventitreenne Verduci dirà che il giorno della fucilazione “procedeva con sublime noncuranza, quanto uno Spartano imperterrito” e pare che rifiutò persino l’ultima confessione (episodio ribadito al Visalli da Vincenzo Verduci, fratello di Rocco, nel 1913). Tedesco, invece, ritornerà nella sua chiesa riprendendo a officiare normalmente le sue funzioni. Dopo il fallimento della rivolta e l’esecuzione delle condanne, i resti di Rocco Verduci, come quelli dei suoi compagni, saranno “dispersi” in una fossa comune, detta “la lupa”. Tedesco si spegnerà nel 1877, dopo essere sopravvissuto al passaggio dal vecchio al nuovo mondo che si andava formando. Le sue spoglie saranno sepolte nella chiesa che aveva fatto ricostruire, a Sant’Agata, “vicino all’altare maggiore, con una lapide sul pavimento..con una lunga epigrafe scritta in latino”(G. Dieni).

L'ex chiesa di San Nicola, oggi di Sant'Agata

Eppure nel 1954 iniziarono dei lavori per restaurare la chiesa che aveva subito dei gravi danni a causa di un’alluvione. E siccome nei nostri paesi capita spesso che quando si costruisce, nel contempo, si distrugge sempre qualcosa, il monumento funebre di Vincenzo Tedesco venne interamente demolito dagli operai impegnati a risistemare l’interno della struttura.
Un vecchio muratore, ancora vivente, mi ha confermato che in quei giorni si poteva “lavorare” con una certa libertà.
Inutile dire che, con questo ampio margine di azione e con la mancanza di civiltà estetica che ci contraddistingue, i resti del Tedesco scomparvero. Non si ha notizia di un loro spostamento in un altro luogo, non si sa nulla. Lui, che aveva dedicato la vita a quella chiesa, veniva “condannato”, dopo 77 anni dalla sua morte, a non avere più un posto preciso dove riposare. Guarda caso, proprio come quel Rocco Verduci che gli era stato così diverso in tutto.